PAGINE VIVE

di Barbara Aurori

LA QUOTIDIANITÀ E L’INFINITO

Quest’estate mi è capitato di leggere un libro molto particolare, che probabilmente molti (o forse dovrei dire "molte") di voi già conoscono, e cioè Castelli di rabbia di Alessandro Baricco. Mi ha colpito in modo particolare una pagina (…precisamente l’ultima pagina del terzo paragrafo del quinto capitolo!) sulla quale ora vorrei soffermarmi.

A dire il vero, Baricco, scrittore amatissimo dal pubblico femminile (non si sa se più per le sue indubitabili doti di scrittore o più per la sua, altrettanto indubitabile, avvenenza…), a me non sta particolarmente simpatico. Forse perché il fatto di essere assolutamente consapevole della propria genialità lo rende, a mio avviso, decisamente troppo pieno di sé.

Ma torniamo a noi. In questa pagina (siamo già verso la fine del libro) troviamo l’ultima lettera che Pehnt scrive a Pekisch.

Pehnt è un ragazzo orfano, cresciuto da una vedova nel paese-fantasma di Quinnipak. Pekisch, pensionante a vita presso la casa della stessa vedova, oltre ad essere il suo migliore amico, gli ha fatto un po’ da padre. E’ un personaggio davvero irripetibile: grande conoscitore della musica, si è prodigato per tutta la vita in innumerevoli invenzioni dei più incredibili strumenti musicali. Musicista eccezionale e un po’ pazzo, è conosciuto in tutti i paesi della zona.

Tra i due c’è sempre stato una sorta di tacito accordo: Pehnt era stato trovato avvolto in una giacca da uomo. Fin da bambino girava con quell’enorme giacca addosso. Se un giorno fosse diventato abbastanza grande da farsela diventare di misura avrebbe lasciato quel "paese da niente" per andare incontro al suo destino, altrimenti avrebbe vissuto lì, per sempre.

Un bel giorno, praticamente all’improvviso, la giacca gli sta a pennello, così Pehnt lascia Quinnipak per trasferirsi in una grande città, dove diventa assicuratore e si forma una famiglia. Pekisch si sente in qualche modo tradito, è risentito nei suoi confronti e, soprattutto, non riesce ad accettare la nuova vita di Pehnt.

Al termine di un curioso scambio epistolare, il ragazzo divenuto ormai uomo scrive al vecchio amico quest’ultima lettera:

"Vecchio, benedetto, Pekisch,

questo non me lo devi fare. Non me lo merito. Io mi chiamo Pehnt e sono ancora quello che se ne stava sdraiato per terra a sentire la voce nei tubi, come se quella arrivasse davvero, e invece non arrivava. Non è mai arrivata. E io adesso sono qui. Ho una famiglia, ho un lavoro e la sera vado a letto presto. Il martedì vado a sentire i concerti che danno alla Sala Trater e ascolto musiche che a Quinnipak non esistono: Mozart, Beethoven, Chopin. Sono normali eppure sono belle. Ho degli amici con cui gioco a carte, parlo di politica fumando il sigaro e la domenica vado in campagna.

Amo mia moglie, che è una donna intelligente e bella. Mi piace tornare a casa e trovarla lì, qualsiasi cosa sia successa nel mondo quel giorno. Mi piace dormire vicino a lei e mi piace svegliarmi insieme a lei. Ho un figlio e lo amo anche se tutto fa supporre che da grande farà l’assicuratore. Spero che lo farà bene e che sarà un uomo giusto. La sera vado a letto e mi addormento. E tu mi hai insegnato che questo vuol dire che sono in pace con me stesso. Non c’è altro. Questa è la mia vita. Io lo so che non ti piace, ma non voglio che tu me lo scriva. Perché voglio continuare ad andare a letto, la sera, e addormentarmi.

Ognuno ha il mondo che si merita. Io forse ho capito che il mio è questo qua. Ha di strano che è normale. Mai visto niente del genere a Quinnipak. Ma forse proprio per questo, io ci sto bene. A Quinnipak si ha negli occhi l’infinito. Qui, quando proprio guardi lontano, guardi negli occhi di tuo figlio. Ed è diverso.

Non so come fartelo capire, ma qui si vive al riparo. E non è una cosa spregevole. È bello. E poi chi l’ha detto che si deve proprio vivere allo scoperto, sempre sporti sul cornicione delle cose, a cercare l’impossibile, a spiare tutte le scappatoie per sgusciare via dalla realtà? È proprio obbligatorio essere eccezionali?

Io non lo so. Mi tengo stretta questa vita mia e non mi vergogno di niente: nemmeno delle mie soprascarpe. C’è una dignità immensa, nella gente, quando si porta addosso le proprie paure, senza barare, come medaglie della propria mediocrità. E io sono uno di quelli.

Si guardava sempre l’infinito, a Quinnipak, insieme a te. Ma qui non c’è l’infinito. E così guardiamo le cose, e questo ci basta. Ogni tanto, nei momenti più impensati, siamo felici.

Andrò a letto, questa sera, e non mi addormenterò. Colpa tua, vecchio, maledetto Pekisch.

Ti abbraccio. Dio sa quanto ti abbraccio."

Pehnt, assicuratore.

Quasi tutti proviamo simpatia per il vecchio Pekisch e probabilmente abbiamo vissuto dei periodi in cui ci siamo sentiti molto vicini al suo modo di vivere: non limitarsi alla semplice realtà delle cose, non accontentarsi della mediocrità, o anche solo della normalità, voler creare cose nuove, cercare di essere speciali, anche se nel proprio piccolo, avere negli occhi l’infinito…

È però altrettanto chiara la serenità di Pehnt nell’avere trovato il suo mondo nell’intimo della propria casa e della propria famiglia. L’essersi accorto che proprio in questa "normalità" abita la sua felicità, nel trovare quiete guardando suo figlio negli occhi. Nel non provar vergogna dei propri difetti o delle proprie paure. Nel trovare soddisfazione piena non nell’infinito, ma nella quotidianità.

Penso che l’errore di Pehnt stia nell’accontentarsi di tutto questo, o meglio, nel credere che tutto questo sia un accontentarsi. Nel pensare che nel suo angolo di mondo non ci sia l’infinito, e che il suo sia solo una specie di "riparo".

In realtà Pehnt è in pace con se stesso perché ha trovato l’infinito nell’andare a letto presto, la sera, accanto alla donna che ama e nello svegliarsi insieme a lei la mattina, nello sperare che suo figlio, qualsiasi mestiere farà, lo farà bene e sarà un uomo giusto, nella musica che ascolta, nelle chiacchiere con gli amici e nelle gite la domenica.

L’infinito, per il vecchio Pekisch, era la musica, era inventare i suoi strumenti assurdi e geniali, era incantarsi ascoltando le campane di una chiesa durante un temporale, era comporre melodie come non si sentivano in nessun’altra parte del mondo, era cercare di catturare i suoni in ogni modo, per stupire gli altri e perfino se stesso.

Forse ha ragione Pehnt, quando dice che ognuno ha il mondo che si merita, o forse, semplicemente, ognuno vive cercando di raggiungere quello che gli permetterà di addormentarsi in pace con se stesso, la sera.

Certamente, ognuno ha un modo tutto suo per essere eccezionale.

Qualcuno un giorno ha detto "Essere santi non significa altro che fare in modo straordinario le cose ordinarie".